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VITE DI DANZA

LE INTERVISTE DI SID

Vite di danza è la nostra rubrica dedicata a chi vive di danza.

Testimonianze ed interviste inedite di danzatori, maestri, coreografi e direttori.

I protagonisti della scena tersicorea ci raccontano il loro percorso e la loro esperienza nel mondo della danza.

 

 

GIULIA STACCIOLI

1) Giulia cosa significa essere donna, madre e direttrice di una compagnia di danza oggi in Italia?

Significa essere sempre sul pezzo. Riuscire a cambiare modo di affrontare le cose a seconda del contesto in cui sei. Personalmente cerco di tenere il lavoro più lontano possibile dalla famiglia, cosa che non riuscivo a fare all'inizio della mia carriera perché il mestiere dell'artista in generale è un mestiere molto coinvolgente. Le cose complicate e difficili del mio lavoro cerco comunque di lasciarle fuori dal contesto familiare. La sensazione è quella di non riuscire a fare tutto bene come mi piacerebbe perché devo sempre rinunciare a qualcosina. Ho imparato, però, anche ad essere indulgente con me stessa negli anni; se uno spettacolo non viene perfettamente come vorrei faccio buon viso a cattivo gioco mentre se non riesco ad essere presente fino in fondo ad un impegno di mio figlio faccio un po’ più di fatica a non sentire il senso di colpa, ma allo stesso tempo so che la vita è fatta di tanti aspetti diversi. Mi accorgo che a volte la parte che trascuro di più è la parte mia, di donna, quindi se non ho tempo rinuncio a qualcosa che è solamente mio, qualche volta riesco a ritagliarmi degli spazi.

 

2) C'è qualche legame in senso artistico con tuo padre nel modo di intendere l'arte?

Credo che mio padre mi abbia passato la parte di creatività e di manualità. Io ho giocato tanto nel suo studio con la materia, questo me lo porto dietro nel mio lavoro.  

Altri aspetti del suo modo di essere artista mi hanno condizionato non in positivo quando ero piccola, per cui da questi aspetti ho preso le distanze; mio padre era un intellettuale concettuale, molto impegnato sia nei collettivi artistici che nel sindacato scuola quindi era un padre poco presente e difficilmente agganciabile, diciamo che è stato un artista contemporaneo che io ho vissuto come figlia ed è per questo che ho preso le distanze dal quel modo di essere artista: di grandi ideali, gande sensibilità espressa ma che spesso non riesce a godere dei sentimenti profondi più vicini.  Pur apprezzando molto la sua arte so che la sua arte lo ha allontanato come papà, ci sono, quindi, delle influenze complicate da armonizzare ma sicuramente il suo modo di osservare le cose, la curiosità, il modo di stare dentro il lavoro costruendo tessuti ed oggetti, la manualità mi sono rimaste.

 

3) Che cosa cerchi in un allievo durante i provini?

Credo tanto nell'individualità e nella condivisione. Cerco la curiosità perché è la curiosità che ti porta ad un desiderio di cambiamento. Anche se un allievo non ha quelle doti che la natura può fornire ma ha un grande desiderio e una grande curiosità allora a quel punto scatta anche la volontà. Non cerco di formare un corpo di ballo con danzatori uguali, a me piace valorizzare premiando le individualità dei ragazzi dando fiducia anche a chi inizialmente potrebbe non avere un grande potenziale. Nella mia esperienza ho avuto più delusioni da talenti espliciti che poi si sono fermati all'autoammirazione piuttosto che da persone con meno doti che hanno tirato poi fuori qualcosa in più.

 

4) Oggi nel mondo della danza è più semplice vedere compagnie in cui i danzatori compiono gesti atletici particolari. Tu sei stata una pioniera in questo, quanto è stato difficile rompere gli schemi all'inizio del tuo percorso?

Io credo di essere stata un po’ un'incosciente! In quel momento sono andata controcorrente ma anche oggi mi sento sempre controcorrente, l'altro giorno ho proprio detto ai miei allievi "sono fuori moda". Io vado avanti da venticinque anni combattendo con tanti pregiudizi per il percorso fatto. Io lavoro principalmente per immagini, il corpo di un danzatore mi permette di utilizzare un vocabolario molto ampio, un danzatore a testa in giù ti può dire delle cose diverse rispetto ad un danzatore a testa in su e mi piace indagare su questo. Combatto da sempre il pregiudizio, mi piace l'idea che i miei danzatori siano veramente interessanti anche per altri tipi di coreografi e per altri tipi di stili. Io so che la formazione che dò loro ha delle richieste molto specifiche e parte dalla mia visione della danza. Il mio obiettivo è stato sempre quello di mettere in comunicazione il mondo della danza con il mondo dello sport, da parte della ginnastica sono stata additata di aver rinnegato il mio passato cosa che non è assolutamente vera e dal mondo della danza come quella che non fa la danza d'autore quindi è molto difficile far dialogare questi due mondi. Secondo me, però, un dialogo di base c'è visto che spesso i miei danzatori sono utilizzati anche da altri coreografi: è sufficiente non catalogare per generi ma considerare la qualità del gesto trasformandola in funzione della propria personale creazione, ciò che considero la vera contaminazione.

 

5) L'esperienza in Momix quanto ti ha influenzato?

L'esperienza in Momix con Moses Pendleton è stata la mia apertura al mondo della danza. Io ho vissuto molti anni nella ginnastica con una forma mentis ed un codice da rispettare molto rigido quindi quando ho smesso avevo il desiderio di lavorare fuori da questi codici. Sono andata a New York per studiare e successivamente Moses mi ha scelto per la compagnia, ha visto nel mio bagaglio atletico-sportivo un valore in più da utilizzare durante lo spettacolo e questa cosa mi ha gratificato e mi ha autorizzato ad andare avanti in ambito artistico. Questo processo messo in moto con Moses mi ha permesso di non sentire più di essere inadeguata.

 

6) Come nasce il nome Kataklò?

Prima è nato il progetto poi dopo diversi mesi il nome. Non volevo mettere il mio nome perché mi imbarazzava molto, cercavo un’immagine, un'idea. Studiando gli aspetti psicologici della danza contemporanea trovai un libro in cui veniva usato il termine kataklein che in greco antico significa ballare piegandosi e contorcendosi. L'ho declinato alla prima persona perché mi piaceva proprio l'idea del "io ballo piagandomi e contorcendomi" e il riferimento classico al culto del corpo e della mente unite, sposate alla bellezza.

 

7) La tua idea del danzatore Kataklò è cambiata nel tempo?

No, l'idea non è cambiata, sono cambiate le persone. Inizialmente mi trovavo a lavorare con i ginnasti e quindi era molto difficile riuscire a scardinare corpi così tanto educati alla ginnastica facendo delle richieste diverse. Inizialmente ho lavorato con miei ex compagni olimpici che non avevano mai messo piede in un teatro. Questo accadeva perché il ginnasta è abituato  a fare un saggio a fine anno e a lavorare su direzioni ben stabilite, quindi anche muoversi nello spazio era complicato per loro. Inizialmente mi sono dovuta abituare a quel tipo di preparazione e poi negli anni ho iniziato ad introdurre dei pensieri più liberi ed aperti. In questi venticinque anni ho lanciato anche delle provocazioni ai miei danzatori che qualcuno ha colto, qualcuno non ha colto. La mia idea di danzatore kataklò sta cominciando ad essere solo negli ultimi anni l'idea che io avevo considerato fin dall'inizio.

 

8) Qual'è stata la critica più costruttiva che hai ricevuto come danzatrice?

Come critica positiva sicuramente da Pendleton. Quando gli chiesi "tu cosa cerchi in un danzatore?" lui mi rispose: "Cerco un animale e tu sei un animale." Questo sentirmi "animale" mi ha molto colpito è come se mi avesse autorizzato a togliermi tutti gli orpelli che in tanti anni di ginnastica avevo messo su. Al momento non la sentii come critica positiva, oggi sono consapevole che in realtà è stata una chiave importante per me.

 

9) Qual'è il ricordo più bello che hai nel tuo lavoro?

E' difficile scegliere… C'è un'immagine fortissima che ho di piazza San Pietro in cui ci trovavamo per fare una performance durante la giornata mondiale della gioventù. Avevamo preparato una cosa molto rischiosa e quel giorno diluviò dal mattino. Proprio nel momento della nostra performance si aprì il cielo e in quel momento ricordo di aver pensato "Grazie!". Nessun direttore luci avrebbe potuto fare una cosa migliore di quella. In quel momento ho sentito una forza emotiva molto forte. C'erano Giovanni Paolo II, uno squarcio nel cielo dopo una giornata terrificante, la nostra coreografia in sospensione e un canto gregoriano come fondo musicale. C'era tutto, non posso non ricordarmi quel momento.

 

10) Che cosa bolle adesso in pentola nella testa di Giulia?

Mi sarei augurata che le cose si semplificassero nel tempo, invece è sempre più faticoso perché devi sempre fare i conti con la realtà. Mi piacerebbe avere più tempo, il tempo è il bene più prezioso. Ci sono tanti progetti che comunque si stanno concretizzando. Quello che vedo è che ho costruito tanto, con il prossimo anno sono venticinque anni! Abbiamo dei progetti con la compagnia giovani e con la compagnia Kataklò andremo in Brasile.

A volte ho un po' di rammarico perché penso che se avessimo una compagnia di venticinque elementi con tutto il giorno a disposizione per la sala prove sarebbe sicuramente diverso. Quando guardo alcune mie coreografie messe in scena con cinque danzatori mentre me le sono sempre immaginate con trenta o con quaranta elementi penso "Mi piacerebbe una volta vedere quella coreografia con un gruppo più grande". Quindi in pentola bollono tanti progetti, tante collaborazioni e pensieri un po’ romantici come questo.

 

a cura della dr.ssa Filomena Di Stazio

Redazione SID - Scienza In Danza

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